Alan Kay, il filosofo del personal computer

Alan Kay è uno dei pionieri dell'informatica moderna, noto per il software orientato agli oggetti e altre idee rivoluzionarie. Il suo lavoro allo Xerox PARC contribuì a definire il concetto di personal computer

Questo articolo è tratto dal libro "NON È NATO IN UN GARAGE"

A parte i capelli grigi, non è cambiato granché. Alan Kay non dimostra affatto i suoi ottant'anni, non ha diminuito il livello di energia che mette nelle cose, non ha rinunciato ad indossare le sneakers, né ha smesso di dispensare acute osservazioni su ogni sorta di argomento.
Oggi Alan Kay vive in una bella casa a Los Angeles che si fa notare soprattutto per una curiosa protuberanza sul tetto. Quella specie di mansarda è stata costruita per ospitare un organo a canne in pregiato legno di pino lavorato a mano con il quale, quasi ogni mattina, Kay allieta il vicinato esercitandosi con la sua musica preferita, Buxtehude e J. S. Bach.
Quando lavorava alla Disney aveva sulla maglietta una targhetta ovale con su scritto semplicemente “Alan” e un disegno di Topolino. Poteva sembrare ridicolo, e in effetti un po’ lo era, finché non si ricordava che quello era l’uomo assunto con il compito di sviluppare nuovi metodi per trasmettere le storie dai creatori al pubblico.

Alan Kay: nerd, hacker, filosofo, sognatore

Alan Kay può essere considerato l’antesignano del moderno nerd dei computer, un modello a cui si ispirò quella generazione che rimase affascinata dalle nuove tecnologie negli anni ‘70. A quel tempo, la comunità degli studenti e dei semplici appassionati di elettronica conosceva il suo nome, probabilmente grazie agli articoli che scriveva per la rivista Scientific American, o perché avevano letto un reportage su Rolling Stone che parlava di lui. Se prima gli hacker erano stati socialmente condizionati e si sentivano a disagio ed isolati a causa della loro completa devozione alla macchina, ora Alan Kay forniva una chiave di lettura completamente nuova e sulle pagine della bibbia della controcultura affermava con fierezza che quelle persone timide e impacciate erano in realtà i profeti di un nuovo mondo in cui i computer appartenevano al popolo e tutte le applicazioni che ne sarebbero derivate avrebbero contribuito al miglioramento della società.

Il vero hacker, come lo descrive ai lettori di Rolling Stone, non è solo un fanatico di aspetto trasandato che programma tutta la notte in un rapporto di amore-odio con la macchina, è piuttosto un ribelle, una persona che nutre interesse per le cose non convenzionali. "Alan è stato cacciato da tutte le università del paese", ricorda John Warnock, un matematico che lo conobbe alla Utah University e che sarebbe stato poi suo collega al PARC. "Lui non è una persona normale. È un bambino prodigio che non si è mai trovato a suo agio all'interno di una qualsiasi istituzione accademica".

Sua moglie, Bonnie MacBird, provò a trasferire il suo carattere ad un personaggio nella sceneggiatura originale di Tron, un film di fantascienza prodotto dalla Disney nel 1982, nel quale la sua sfrontatezza, l'intuito e la fiducia in se stesso, in qualche modo sopravvivono nella diluita versione hollywoodiana.
Alan Kay è ancora oggi quel tipo di persona che comunica un’impressione di puro dinamismo anche quando è seduto. Una conversazione con lui si può tramutare in un’esperienza estenuante: ti travolge con un flusso di conoscenza accumulato negli anni e difende a spada tratta le sue idee rivoluzionarie (molte delle quali ancora irrealizzate) contro le schiere di manager, dirigenti, burocrati e professori che considerano la sua visione come una minaccia.

Dichiarò pubblicamente che non c’era nulla di sbagliato nell'usare una macchina da tre milioni di dollari per giocare a Spacewar. Faceva parte del processo che stava portando le nuove tecnologie nel tessuto sociale. Il fatto che un computer potesse essere considerato come un grosso giocattolo, spinse altri ad esplorarne le possibilità di utilizzo e, in altre parole, a vederlo come uno strumento creativo.
Questo concetto della tecnologia come uno strumento, e non fine a stessa, distingue in modo particolare Kay dai suoi contemporanei. Un elemento determinante che lo accomunava a Bob Taylor, era la sua curiosità su cosa poteva fare la macchina, piuttosto che come.

Malgrado le sue prediche incessanti, la maggior parte degli ingegneri che Taylor aveva reclutato nel Computer Science Lab dello Xerox PARC, erano focalizzati esclusivamente su ciò che sarebbero stati in grado di costruire. Si chiedevano: "Con questa tecnologia a disposizione, qual è la migliore macchina che possiamo realizzare?"
Kay rovesciò la questione: "Cosa vogliamo fare? Una volta chiarito questo punto, troveremo il modo di realizzare una macchina che soddisfi le nostre esigenze".

Per la maggior parte delle persone è quasi impossibile considerare la tecnologia come uno strumento

Secondo la visione di Kay era il computer che doveva adattarsi ai bisogni dell'utente e non il contrario. “Per la maggior parte delle persone è quasi impossibile considerare la tecnologia come uno strumento”, affermò in uno dei suoi famosi discorsi, “Dare per scontato il modo in cui funzionano le cose attorno a noi è un atteggiamento pericoloso perché rischiamo di rimanerne schiavi. Dovremmo riscoprire la vera essenza delle cose che sono state rese invisibili da questo processo”.

Fin da piccolo, Kay aveva imparato a comportarsi come un piccolo esploratore. La sua innata curiosità gli avrebbe permesso di scoprire le nuove strade che stava imboccando l'informatica e di immaginare che un giorno la potenza di un computer sarebbe stata nelle mani di chiunque. Nel 1940, un anno dopo la sua nascita a Springfield, Massachusetts, la sua famiglia si trasferì in Australia, la terra nativa di suo padre. Solo quattro anni più tardi, temendo un'offensiva dei Giapponesi, la famiglia fece ritorno in patria e si stabilì a Hadley, nella fattoria del nonno materno.
Il nonno di Kay era Clifton Johnson, un noto scrittore, fotografo e illustratore dell’inizio del secolo. Clifton Johnson morì un anno prima della nascita di Alan e la sua famiglia fu portata a credere che la vena creativa e il temperamento curioso del vecchio Clifton fossero stati infusi nel nipote.
In quella casa iniziò la formazione di Kay. Johnson l’aveva riempita con migliaia di libri che coprivano qualsiasi argomento. Alan imparò a leggere a tre anni. “Quando iniziai le scuole elementari avevo già letto circa duecento libri. Ma il fatto che già avessi le mie idee su molti argomenti era considerato un problema. Alla maestra non piaceva che in classe ci fossero differenti punti di vista, così fu da subito una battaglia”.

Dare per scontato il modo in cui funzionano le cose attorno a noi è un atteggiamento pericoloso perché rischiamo di rimanerne schiavi

Questo genere di conflitti si protrassero per tutta la sua carriera scolastica. Frequentò la Brooklyn Technical High School e la scuola pubblica di Port Washington ma continuò la sua formazione da autodidatta a causa di frequenti sospensioni per insubordinazione e, durante l'ultimo anno delle superiori, per una brutta febbre reumatica che lo costrinse a letto.
Sua madre gli trasmise la passione per la musica. A Port Washington fece amicizia con Chris Jeffers, come lui non propriamente uno studente modello, ma dotato di grande abilità al pianoforte. Suonava in una jazz band e Kay entrò a farne parte come chitarrista. Era una scelta interessante perché quel tipo di musica doveva rispettare delle precise regole formali ma allo stesso tempo invitava gli interpreti ad improvvisare, a rompere quegli schemi per adottarne degli altri.

I due si divisero quando fu il momento di scegliere il college, Jeffers andò all'Università del Colorado mentre Kay, interessato ad un corso di studi in biologia, optò per il Bethany College, un piccolo istituto in West Virginia. Ma nel 1961, dopo un vivace scambio di opinioni con il rettore della facoltà sul fatto che era stata adottata una quota per limitare il numero di studenti ebrei, Kay decise di abbandonare il college. Ciò lo esponeva alla chiamata per il servizio militare e così, giusto per evitare l’esercito, decise di arruolarsi in aeronautica.

Nella base dell'Air Force a Waco, Texas, Kay ammazzava il tempo leggendo libri e giocando a poker ma, dopo aver facilmente superato un test attitudinale, ebbe anche l’opportunità di frequentare un corso di programmazione e di fare pratica su un computer IBM 1401.
“Quella non era informatica, era piuttosto un corso pratico di programmazione, ma in una sola settimana ti permetteva di apprendere le funzionalità basilari per iniziare a usare la macchina”.

Approccio al software

Per sua natura, Kay non sembrava il candidato ideale per sottostare al rigore delle istruzioni e al set di precise regole che imponeva la macchina. Ma aveva già intuito che pur rispettando quelle regole stringenti non c’era limite alla creatività dei risultati che si potevano ottenere. “Mi resi conto che i computer erano sostanzialmente stupidi, non facevano altro che eseguire ad altissima velocità ogni singola istruzione che gli veniva impartita. Inoltre, il programmatore poteva usare quel set di regole logiche per definire qualsiasi condizione astratta. Pur essendo rigidamente strutturato, il sistema era infinitamente malleabile. Nonostante l'hardware del computer debba rispettare delle leggi fisiche, con gli elettroni che possono muoversi solo lungo circuiti predeterminati, grazie all'uso di un linguaggio simbolico, come quello che si usa in matematica, sufficientemente disconnesso dal mondo reale, è possibile riprodurre qualsiasi situazione. L'unico limite del software è l'immaginazione umana.
In un computer, le navicelle spaziali possono viaggiare più veloci della luce e il tempo scorrere al contrario
”.

Pur essendo rigidamente strutturato, il software è infinitamente malleabile.
L'unico limite è l'immaginazione umana

In attesa di riprendere gli studi, Kay visse per un breve periodo a Denver, ospite del suo amico Chris Jeffers, che nel frattempo aveva trovato impiego alla United Airlines, presso l’aeroporto internazionale di Stapleton. Kay si manteneva lavorando in un negozio di musica. Un giorno Jeffers lo invitò alla United per mostrargli il sistema computerizzato per la prenotazione dei voli. Veniva usato un mainframe basato su un IBM 305 RAMAC, appositamente progettato per gestire enormi database.
All'epoca Kay aveva una conoscenza superficiale dei computer. Quello fu il primo sistema di grandi dimensioni che vide all'opera e ne comprendeva l'architettura solo in modo sommario. Ma ciò che di più colpì Kay fu quanto erano primitive le procedure necessarie al funzionamento della macchina. Il sistema era servito da un esercito di operatori che per tutto il tempo non facevano altro che trasportare pile di schede perforate da una parte all'altra.
Era divertente osservare come la moderna elettronica digitale avesse bisogno di tanto lavoro manuale. Mentre Kay contemplava quella scena, un’idea iniziò a germogliare in lui. C'era un'enorme discrepanza fra lo scopo della macchina — che era di semplificare il lavoro umano — e lo sforzo richiesto per realizzarlo.

L'architettura di un calcolatore era una materia troppo complessa per essere trattata nel corso dell'Air Force, ma Kay iniziò ad intuire alcuni principi che qualche anno più tardi si sarebbero tradotti in una concreta scelta professionale. A quel tempo ogni computer era differente. Non esisteva come oggi un’architettura standardizzata grazie alla quale un software è in grado di girare su macchine che rispondono allo stesso set di istruzioni, anche se prodotte da aziende diverse, con diverso tipo e quantità di memoria, o un diverso microprocessore. La standardizzazione ha contribuito a rendere il computer un fenomeno di massa. Gli utenti sono ragionevolmente sicuri che un programma funzionerà sul loro computer, come sanno di trovare il pedale del freno e dell'acceleratore sempre nella stessa posizione indipendentemente dal fatto che la loro auto sia una Fiat piuttosto che una Mercedes.
Niente di tutto questo esisteva nel mondo dei computer negli anni ‘60. Oltre che nella forma e nelle dimensioni, le macchine differivano nell'architettura, nell'elettronica e nelle istruzioni interpretate dal processore centrale. Ad esempio, la stessa sequenza di bit avrebbe potuto significare per un computer Burroughs di addizionare due numeri, mentre un Control Data avrebbe effettuato la divisione del primo sul secondo.
Ogni macchina aveva il suo metodo particolare di salvare i dati ed eseguire le operazioni matematiche di base. Le differenze erano del tutto arbitrarie, come se il pedale sotto il piede destro funzionasse da acceleratore sulla Fiat ma accendesse i fari sulla Mercedes.

D'altro canto, i produttori di computer non vedevano alcun vantaggio nel commercializzare delle macchine con delle caratteristiche comuni ai loro concorrenti. Una volta che l'IBM aveva venduto il suo sistema alla United Airlines, poteva stare sicura che l'enorme sforzo di riscrivere il software, addestrare il personale e spostare tonnellate di hardware, avrebbe fatto pensare a lungo la United prima di rimpiazzare il suo mainframe con un altro, diciamo, della Honeywell.

Dopo l'anno in aeronautica, Kay riprese gli studi all'Università del Colorado, dove si laureò in biologia molecolare e matematica. In quel periodo, per guadagnarsi da vivere, lavorò come programmatore al NCAR (National Center for Atmospheric Research), in cui si cimentò con uno dei primi supercomputer della Control Data Corporation progettati da Seymour Cray. Nel 1965, grazie al suo impiego al NCAR, trascorse alcuni mesi nel laboratorio di Cray a Chippewa Falls, nel Wisconsin.

Quella esperienza lo mise in contatto con uno dei più grandi progettisti di computer, tuttavia non ebbe particolare influenza su di lui, perché ancora non aveva sviluppato una vera passione per i computer. Ma in modo subconscio, la sua mente stava assorbendo i principi fondamentali della programmazione che, qualche anno più tardi, avrebbero portato a straordinarie evoluzioni nella progettazione del software. In quel periodo, un altro evento a cui inizialmente non prestò la dovuta attenzione, fu un articolo pubblicato sulla rivista Electronics. Per il suo trentacinquesimo anniversario, l’editore aveva invitato alcuni leader dell’industria a tracciare il loro personale scenario sul futuro della tecnologia nei decenni successivi.
Gordon Moore, un brillante ingegnere della Fairchild Semiconductor e futuro fondatore di Intel, contribuì con un pezzo di quattro pagine intitolato “L’aumento del numero di componenti nei circuiti integrati.”

L'articolo prevedeva che i circuiti sarebbero stati realizzati ammassando sempre più densamente transistor di dimensioni microscopiche e che di conseguenza la potenza di calcolo dei computer sarebbe cresciuta esponenzialmente nel corso degli anni, con un drastico abbattimento dei costi. Moore affermava che questa tendenza poteva essere prevista matematicamente, con il numero di transistor ospitati in un singolo circuito integrato che sarebbe raddoppiato ogni diciotto mesi. Così ad esempio, la memoria che costava $500.000 nel 1965, si sarebbe potuta acquistare per circa $3000 nel 1985 — un’idea così intuitiva e basilare per la successiva crescita ed espansione dell’industria dei computer che da allora sarebbe diventata nota come “Legge di Moore”.

Alan Kay scorse l'articolo di Moore seduto nella stanza a fianco al supercomputer CDC 6600 raffreddato al freon, capace di processare fino a dieci milioni di istruzioni al secondo. Lo ripose senza badarci troppo. La stupefacente previsione di Gordon Moore che l’elettronica avrebbe intrapreso un percorso di incessante miniaturizzazione non sembrava avere alcuna rilevanza nella sua vita. Il sogno di un piccolo computer a disposizione di un singolo individuo non avrebbe preso forma nella sua mente prima di un altro paio d'anni.
In realtà, Kay riteneva che i computer fossero divertenti ma la sua intenzione era ancora quella di prendere il dottorato in medicina o filosofia. Alla fine, quasi per caso, scelse la carriera informatica. Gli piaceva particolarmente l’aria di montagna, così decise che qualunque corso di studi avesse intrapreso, avrebbe dovuto trovarsi ad almeno mille metri di quota. Fu così che optò per la Utah University.

Le avanguardie del mondo accademico

Senza un soldo in tasca, Kay arrivò al campus poco prima dell'inizio del quadrimestre invernale, ma ebbe la fortuna di trovare David Evans come mentore. Grazie ad un finanziamento di $5 milioni che Bob Taylor aveva concesso dopo essere succeduto ad Ivan Sutherland alla direzione dell'IPTO, Utah era diventato uno dei più avanzati centri di ricerca nella computer grafica.
Evans era un uomo introverso e di poche parole, stava alla sua scrivania sommerso di documenti. Quando Kay entrò nel suo ufficio non fece altro che porgergli una cartellina: “Prendi questo e leggilo”, gli disse. Il titolo recitava, “Sketchpad: A Man-Machine Graphical Communications System”.
Era la tesi di laurea che Ivan Sutherland aveva presentato al MIT nel 1963. Il documento descriveva il programma che era diventato un punto di riferimento per la giovane scienza della grafica interattiva computerizzata. C'era una sola macchina al mondo su cui Sketchpad poteva funzionare, il TX-2 di Wes Clark nel Lincoln Lab. Ma i suoi principi generali potevano essere applicati ad una nuova generazione di computer che si stava affacciando.

Ivan Sutherland utilizza Sketchpad sul TX-2, 1963 (foto: MIT)

Per Evans, Sketchpad era anche un’introduzione fondamentale per il suo corso di studi. “Per essere considerato un membro del gruppo ad Utah”, racconta Kay, “prima di tutto, dovevi capire come funzionava quel programma”. Il sistema di Sutherland era in grado di creare oggetti grafi ci di una complessità sorprendente, soprattutto considerando le limitazioni hardware dell’epoca. Con Sketchpad l’utente poteva tracciare segmenti e linee curve, fare intersezioni a precise angolazioni e zoomare avanti e indietro la risoluzione del display.
Il programma fu il primo a sperimentare un “desktop virtuale” sul quale l’utente modificava la porzione visibile di un disegno (la cui superficie avrebbe teoricamente occupato circa mezzo chilometro quadrato). Il disegno era interamente contenuto nella memoria del computer e le parti nascoste potevano essere visualizzate sull'area di lavoro scrollando in qualsiasi direzione.

“Contemplare il potere di Sketchpad fu come intravedere uno scorcio di paradiso”, disse Kay. “Quel programma aveva tutte le caratteristiche che i computer sembravano promettere. Rappresentò per noi la luce che tracciava la strada.”

L’interfaccia grafica di Sketchpad fu solo uno tra le decine di concetti che bombardarono la mente di Kay durante le sue prime settimane a Utah. Trascorreva ore in biblioteca a fotocopiare qualsiasi cosa catturasse le sua attenzione. Bramoso di assorbire quanto c’era da sapere, in poco tempo collezionò centinaia fra i più significativi articoli che la letteratura informatica avesse prodotto fino a quel momento.

I ricercatori alla Utah University avevano una tradizione: agli ultimi arrivati venivano assegnati dei compiti che nessun altro voleva svolgere. A Kay toccò rendere compatibile una versione del linguaggio di programmazione Algol con un mainframe Univac. Trovò sopra la sua scrivania un nastro magnetico e un biglietto che diceva: “Questo è l’Algol per l’Univac 1108. Non funziona. Fallo funzionare.”

Quando Kay iniziò ad affrontare il problema, scoprì che il nastro in realtà conteneva una variante norvegese del linguaggio chiamata Simula. A rendere le cose ancora più complicate, era il fatto che tutta la documentazione era scritta in norvegese e che i singoli termini tradotti in inglese potevano avere dei significati completamente diversi. Con grande meticolosità, aiutato da altre matricole, Kay intraprese l’arduo compito di disassemblare il codice macchina presente sul nastro. L'edificio che ospitava i laboratori della Utah University aveva dei corridoi estremamente lunghi, e gli studenti srotolarono sul pavimento il listato del programma, lungo circa trenta metri, rimuginando sopra di esso nel tentativo di comprendere cosa stesse facendo il linguaggio in un determinato punto.

Per seguire le istruzioni che puntavano ad altre sezioni del codice, Kay era costretto ad alzarsi e a camminare avanti e indietro nel corridoio, come in una manifestazione fisica dell’ipertesto. In precedenza, Kay non aveva pienamente compreso ciò che Sutherland aveva fatto nel codice di Sketchpad per renderlo uno strumento così potente, ma dopo aver osservato attentamente il listato di Simula lungo il pavimento, iniziò a capire che i due programmi condividevano il medesimo approccio. L'intuizione gli venne nel Novembre del 1966, quando vide che entrambi i programmi cercavano di ricreare una specie di meccanismo biologico cellulare in cui dei semplici blocchi venivano combinati insieme per creare sistemi più complessi. Man mano che le cose gli apparivano chiare, cresceva in lui il livello di eccitazione.

Tradizionalmente, i programmi per computer erano divisi in strutture di dati e procedure. Giunse alla conclusione che quello era un approccio sbagliato per progettare un sistema software. Ora Kay stava guardando alla programmazione da una prospettiva completamente nuova, in cui tutte le componenti erano modulari, simulando la struttura cellulare di un essere vivente. Inoltre, ne derivò un’idea parallela: ogni modulo poteva essere un sistema completo e indipendente dagli altri. La comprensione di quei programmi portò ad un’altra osservazione di importanza cruciale.
Ciò di cui sia Sketchpad che Simula risultavano mancanti, si rese conto Kay, era un’altra componente fondamentale del meccanismo cellulare: la capacità di comunicare utilizzando messaggi.

Una notevole influenza su Alan Kay la esercitarono anche i profetici discorsi di Marvin Minsky, eminente psicologo del MIT, pioniere informatico e fondatore della nuova scienza dell’intelligenza artificiale. Minsky sosteneva che il metodo di insegnamento tradizionale distrugge la naturale attitudine all'apprendimento dei bambini, un concetto che Kay aveva particolarmente a cuore. Minsky non propose esplicitamente il computer come soluzione al problema, ma citò l’interessante lavoro di un collega che aveva sviluppato un semplice linguaggio che permetteva ai bambini di apprendere la programmazione di un computer.

Qualche settimana dopo, Kay fece visita di persona a quel ricercatore del MIT, il suo nome era Saymour Papert. Quel Sudafricano corpulento e barbuto aveva studiato matematica a Cambridge e aveva sviluppato un particolare interesse nelle capacità di apprendimento dei bambini. Papert aveva concepito un semplice linguaggio di programmazione conosciuto come “LOGO”, il cui scopo era insegnare ai bambini come funzionava il computer dotandoli di uno strumento che faceva rispondere istantaneamente la macchina ai loro comandi.
LOGO trasformava letteralmente il computer in un giocattolo. La sua caratteristica più famosa era un piccolo robot a forma di tartaruga. Questo dispositivo si muoveva lentamente sul pavimento di un’aula scolastica in base a dei semplici comandi che i bambini digitavano su un terminale: “forward 100” diceva alla tartaruga di avanzare di 100 passi, “right 90” diceva di ruotare di 90 gradi a destra, e così via. Un pennarello che fuoriusciva dal ventre della tartaruga, avrebbe tracciato il suo percorso sul pavimento consentendo ai giovani programmatori di creare disegni sempre più intricati.

Saymour Papert con la sua tartaruga, 1967 (foto: MIT)

La genialità di LOGO stava nel trasformare un concetto astratto (impartire al computer un comando per eseguire un’istruzione) in un’azione concreta (far muovere la tartaruga per disegnare un parallelogramma). Per Kay fu una vera rivelazione osservare i bambini di Papert che a dieci, undici anni, usavano un computer con naturalezza e ottenevano in quel modo dei disegni che altrimenti potevano sembrare realizzati da mainframe con complessi algoritmi.

Come poi dichiarò Wes Clark, “Sottoponendola all'insindacabile giudizio dei bambini, Papert ci aveva mostrato il modo per riportare la macchina nella sua giusta dimensione: il computer non era più considerato un semidio ma un semplice strumento”.
Kay non dimenticò mai la lezione e ne trasse una conclusione di fondamentale importanza: “L'output che può essere fornito su un terminale collegato in time-sharing è costituito, nel migliore dei casi, da grezze linee di testo in caratteri verdi e qualche beep in varie tonalità. I bambini, però, sono abituati a dipingere con gli acquarelli, a guardare la televisione a colori, ad ascoltare musica stereofonica. Di solito, le cose che si possono fare con un sistema time-sharing di bassa capacità sono insufficienti a stimolare il loro interesse. Se è vero che il medium è il messaggio, allora il time-sharing ha perso in partenza”.

Infatti, secondo la teoria del sociologo Marshall McLuhan, era importante studiare un sistema di comunicazione non tanto in base ai contenuti veicolati, ma in base ai criteri strutturali con cui veniva organizzata la comunicazione. L’uso di un terminale connesso in time-sharing appariva del tutto inadeguato a garantire una comunicazione appagante. Quando venne il suo turno di sviluppare un linguaggio di programmazione al PARC, Kay avrebbe attinto diversi elementi chiave dal sistema di Papert: il suo feedback visuale, la sua accessibilità ai principianti e il suo orientamento alla creatività dei bambini. Probabilmente in considerazione di questo ultimo fattore, l’avrebbe chiamato “Smalltalk”.

L'idea del Dynabook come computer personale

Nel Gennaio del 1967, Evans organizzò un incontro per far collaborare Kay con un talentuoso ingegnere chiamato Ed Cheadle che lavorava in un’impresa aerospaziale di Salt Lake City. Cheadle era un genio dell’hardware che stava sviluppando un piccolo computer desktop con l’intento di semplificare il suo lavoro con i calcoli scientifici. Quel computer divenne noto come FLEX e dette a Kay l’opportunità di iniziare a sperimentare alcune delle sue idee sui linguaggi di programmazione.

Proprio mentre Alan Kay stava iniziando a progettare il software per la FLEX machine, Doug Engelbart fece visita alla Utah University. Engelbart aveva filmato una dimostrazione del suo sistema NLS e stava viaggiando per tutta la nazione per mostrare il suo lavoro agli altri istituti sotto contratto con l’ARPA. Lo scienziato dello Stanford Research Institute portava con se un proiettore Bell & Howell da sedici millimetri che era stato modificato per permettergli di bloccare i fotogrammi o di scorrerli al contrario. All'epoca erano in pochi quelli che avevano familiarità con l’idea di un cursore sullo schermo usato come dispositivo di puntamento e selezione, così era importante essere in grado di stoppare il filmato per indicare esattamente cosa stava accadendo sullo schermo in ogni preciso momento.

Kay aveva già iniziato a considerare la FLEX machine come un “personal computer” e fu completamente catturato dal video di Engelbart. Nel sistema di Engelbart, Kay vide la Terra Promessa. Di certo, in un’epoca in cui il computer era visto univocamente come un elaboratore di dati, Engelbart aveva messo insieme quasi tutte le componenti fondamentali di un moderno personal computer: ipertesto, grafica, finestre multiple, un efficace sistema di navigazione ed inserimento dei dati, lavoro collaborativo in rete, e infine il mouse come dispositivo di puntamento. Una lista di caratteristiche che fornivano un'incredibile anticipazione del futuro.

La dimostrazione del sistema NLS di Engelbart fece riaffiorare nella mente di Kay la previsione di Gordon Moore sull'evoluzione della potenza elaborativa. Pensò al piccolo computer a cui stava lavorando e alle ovvie implicazioni della legge di Moore. Realizzò all'istante che i computer così come erano conosciuti negli anni ‘60 non sarebbero sopravvissuti. Era certo che presto ci sarebbero stati non migliaia ma milioni di utilizzatori di computer.
Provava una strana sensazione di inquietudine, simile a quella di una persona che, appena letta la teoria di Copernico, guardava il cielo e capiva che il sole non girava intorno alla Terra. Non fu una coincidenza che i due uomini che contribuirono maggiormente alla definizione del moderno personal computer furono fra i primi a comprendere l'enorme impatto che avrebbe avuto la miniaturizzazione dei circuiti integrati. Questa consapevolezza gli avrebbe permesso, per strade separate, di modificare radicalmente lo scenario nel mondo dei computer.

I computer così come erano concepiti negli anni ‘60 erano destinati all'estinzione. Presto ci sarebbero stati milioni di utilizzatori di computer

Uno degli aspetti più significativi del corso di studi di David Evans era che gli studenti, nonostante fosse loro richiesto di pagare la retta sotto forma dei lavori più noiosi, erano anche considerati a pieno titolo membri della comunità. Avevano a disposizione un sostanzioso budget per i viaggi in modo da stringere contatti con altri ricercatori in tutto il mondo — Kay ne approfittò percorrendo più di 200.000 Km. Inoltre, potevano anche accompagnare Evans alle conferenze presenziate dai migliori scienziati del paese.

Nel 1967 l’ARPA organizzò un incontro nella stazione sciistica di Alta, in Utah, a cui parteciparono tutti i ricercatori e i migliori studenti degli istituti finanziati dall'agenzia governativa. Sedevano in circolo mentre ascoltavano Bob Taylor che conduceva la riunione. Verso la fine chiese agli studenti se avevano qualche suggerimento su come procedere. John Warnock, che anni dopo avrebbe fondato Adobe (l’azienda software che sviluppò Postscript, Photoshop e Illustrator), frequentava lo stesso corso di Kay alla Utah University. Visto che presto sarebbero diventati colleghi, egli suggerì di rendere quell'incontro fra gli studenti un appuntamento annuale, per confrontarsi ed esporre le proprie idee. A Taylor piacque l’idea e nell'estate del 1968 organizzò il successivo incontro nell'Allerton House di Monticello, Illinois, a cui parteciparono i migliori studenti che stavano prendendo il dottorato di ricerca negli istituti sotto la sfera dell'ARPA.

In quell'occasione Kay presentò la sua idea di computer personale. Aveva già coniato un nome per la sua macchina ideale: “Dynabook”, con la forma di un notebook, integrava uno schermo e una tastiera e avrebbe potuto creare, editare e memorizzare ogni tipo di documento personale, libri, musica, immagini e video. Tutti ascoltavano increduli.
“Questo è pazzo”, fu il commento di Barry Wessler, uno dei presenti a quel meeting. “Ci mostrò il disegno di un uomo che teneva il suo computer sottobraccio, pensavamo che fosse del tutto ridicolo.”

Per Kay era ovvio che il computer, oltre che personale, dovesse anche essere uno strumento portatile. Durante uno dei suoi viaggi aveva scoperto in un laboratorio dell’Università dell’Illinois un piccolo dispositivo costituito da una lastra di vetro di un pollice accoppiata con del gas neon che era capace di accendere a comando dei minuscoli punti luminosi sulla sua superficie. Era il prototipo del display al plasma del sistema PLATO e lasciò Kay stupefatto. Trascorse le ore successive nel calcolare se fosse stato possibile utilizzare un display di quel tipo con risoluzione di 512x512 pixel direttamente nel FLEX computer. Giunse alla conclusione che, in base alla legge di Moore, non sarebbe stato possibile prima della fine degli anni ‘70 o i primi anni ‘80 — un’attesa decisamente lunga.

In quel periodo, Kay visitò i migliori centri di ricerca del paese. Trascorse del tempo a Menlo Park, ospite dell'Augment Group, dove Bill English lo prese sotto la sua ala e gli presentò gli altri giovani ricercatori che stavano mettendo in pratica le idee di Engelbart. Si recò al MIT per far visita a Saymour Papert. Alla RAND Corporation gli fu mostrato un sistema che permetteva ad un computer di interpretare la gestualità umana. Era già a conoscenza delle idee che stavano alla base di ARPAnet, che sarebbe poi evoluta nella moderna internet, ma aveva anche sentito parlare di un altro esperimento finanziato dall'ARPA, nell'Università delle Hawaii, che aveva lo scopo di creare una rete wireless. Così, un’altra caratteristica che gli sarebbe piaciuta nel suo Dynabook, era una connessione senza fili con il mondo esterno.

Tutte queste idee a cui fu esposto iniziarono fondersi nella sua mente, in una sintesi ancora non ben definita. Da subito, comunque, Kay si accorse che aveva una concezione diversa da quella di Engelbart. Riteneva che la visione di Engelbart fosse più simile a un “veicolo dinamico personale”, che nella mente di Kay era ancora troppo simile alla “ferrovia” degli impersonali mainframe di IBM, a cui si contrapponeva. Kay pensava a qualcosa di diverso, la vera rivoluzione sarebbe stato creare un nuovo “medium”. Non ci sarebbe stato bisogno di aspettare le scuole superiori prima di iniziare a studiare l’informatica, volendo continuare l’analogia, per prendere la patente del computer. Se il computer fosse diventato un medium onnipresente nella nostra vita, a maggior ragione doveva farne parte fin dall'infanzia.

Nei disegni di Alan Kay il computer personale Dynabook utilizzato da bambini

Kay presentò la sua tesi di laurea nel 1969. L’argomento principale doveva essere la progettazione del software e del linguaggio di programmazione del computer FLEX ma finì per incorporare tutti i concetti su cui stava rimuginando e ne derivò una delle più originali dissertazioni mai sottoposte ad una commissione per una materia scientifica. Oltre ai complessi diagrammi, alle funzioni e agli schemi logici, erano anche presenti citazioni letterarie e fantasiose illustrazioni di quella macchina destinata ad un singolo utente. Era la versione desktop, costituita da schermo, tastiera e mouse, di quel computer portatile che tanta ilarità aveva suscitato durante il meeting degli studenti organizzato dall'ARPA un paio d’anni prima.

Il FLEX incorporava molte delle caratteristiche che Kay avrebbe sviluppato negli anni seguenti al PARC, a cominciare dalla compattezza, il linguaggio di programmazione orientato agli oggetti e l’uso di un display. Ma non era proprio quello il personal computer che aveva immaginato, in parte perché non era abbastanza potente per eseguire tutte le funzioni che aveva in mente, e in parte perché utilizzava un linguaggio troppo complicato da apprendere. Non era per niente soddisfatto del risultato finale. La FLEX machine gli dava la sensazione di una cosa fatta a metà.
Quel computer poteva essere implementato parzialmente su hardware esistente ma le sue promesse sembravano fuori portata e non supportate adeguatamente dalla tecnologia a disposizione.

Anche se le macchine dell’epoca si dimostravano inadeguate, gli obiettivi di Kay non mutarono. La sua aspirazione era ancora quella di avere un dispositivo che fosse abbastanza semplice da poter essere usato da un bambino ma abbastanza potente da soddisfare ogni esigenza creativa. Per rendere tangibile la sua idea del “Dynabook”, costruì un modellino di circa venti per trenta centimetri (approssimativamente la grandezza di un foglio A4), spesso poco più di un centimetro, con una tastiera e uno schermo piatto disegnati sulla superficie e riempito con palline di piombo per conferirgli il giusto peso (circa un chilo riteneva che andasse bene). Era un po’ depresso per il fatto che la sua grande idea non potesse concretizzarsi oltre quella semplice forma di cartone.

Alan Kay con il modellino del Dynabook, 2008 (foto: Marcin Wichary)

Dopo il dottorato ad Utah, trascorse un anno al SAIL come associato ed era sul punto di accettare un posto alla Carnegie-Mellon quando Bob Taylor lo chiamò per informarlo delle grandi novità: Lampson, Thacker e diversi altri colleghi della Berkeley Computer Corporation stavano entrando a far parte dello Xerox PARC. Kay riconsiderò i suoi piani. Conosceva Butler Lampson e sapeva quanto era in gamba. Il potenziale della squadra che stava allestendo Bob Taylor era enorme — probabilmente sarebbero anche stati in grado di costruire il suo Dynabook. Taylor fece intendere che grazie alla disponibilità economica di Xerox, alle capacità ingegneristiche dei talenti provenienti dalla BCC e alle idee di Kay, si sarebbero potuti ottenere dei risultati sorprendenti. Chiedeva però a Kay di non entrare a far parte del Computer System Lab, sotto la sua responsabilità, ma di unirsi al gruppo concorrente del Systems Science Lab sotto Bill Gunning.
Alcuni pensarono che fosse intenzione di Taylor “colonizzare” un altro laboratorio con una persona di sua fiducia. Ma probabilmente l’intento era consentire a Kay di mantenere la propria autonomia intellettuale, cosa che all'interno del CSL sarebbe risultata più difficile vista la forte personalità di Lampson.

Kay avrebbe potuto partecipare a tutte le riunioni e interagire con il CSL senza rinunciare al suo spirito indipendente. Se a volte Taylor poteva sembrare vago e incapace di esprimere chiaramente le proprie idee sul futuro dei computer, Kay si dimostrò di una chiarezza disarmante. Il giorno in cui si presentò al PARC per il suo colloquio, Rich Jones lo invitò nel suo ufficio e gli fece una domanda a bruciapelo. “Quale pensi possa essere il frutto migliore del tuo lavoro al PARC?”, gli chiese.
“Sarà un personal computer”, replicò Kay.
“E cosa sarebbe...?”
Kay afferrò un quaderno dalla scrivania di Jones e lo aprì.
“Qui ci sarà un monitor a schermo piatto”, disse, indicando l’interno della copertina che teneva sollevata. “Qui in basso ci sarà la tastiera e sarà un dispositivo abbastanza potente da contenere tutti i documenti personali, musica, libri e immagini. Avrà all’incirca queste dimensioni e peserà meno di un chilo. Ecco di cosa sto parlando".